Cristina Merlo
2 min readNov 26, 2020

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Attingere, atto perpetuo

Conosco un paese attraversato da una falda acquifera e dai suoi pozzi sparsi.

Per decenni furono sacri ad ogni famiglia, fonti di acqua fresca e pura. Fabbri improvvisati, grazie a materiali di recupero, fabbricarono secchi che scendevano e salivano, accompagnati dal rumore di catene o dallo scricchiolio di corde.

Sapevo di uno di quei pozzi, tutti i bambini ed io lo amavamo, al pari del ciliegio che lo avvolgeva.

Non ne avevamo paura, i vecchi vegliavano sui nostri giochi spericolati.

Tutti avremmo osato un tuffo in quello specchio di cielo che non riuscivamo a vedere. Vi riponevamo, come capitava per ogni luogo inaccessibile ed incantato, tanti dei nostri sogni ad occhi aperti, delle nostre curiosità senza meta, delle nostre giovani preghiere, purché li conservasse. Alcuni speravano che tutte quelle gocce di noi accompagnate da quelle del profondo pozzo diventassero come preziosa resina da conservare nel tempo, come forte amica nelle intemperie e nel freddo del cuore.

Quell’acqua diventava piscine nelle grandi bacinelle rubate al bucato, fango tra piedi felici in corse e scivoloni, schizzi al cielo e verso i visi degli amici.

Quel prezioso regalo mi rendeva libera di sporcarmi dalla testa ai piedi, di pulirmi scorrendo la mia pelle in acqua fredda.

Ora quel pozzo non c’è più, ma dentro di me posso sempre attingervi, con tutta l’energia di un sole allo zenit.

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